Il ghetto di Roma nel Cinquecento Storia di un’acculturazione

Il ghetto di Roma nel Cinquecento

Storia di un’acculturazione

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Nel luglio 1555, con la bolla Cum nimis absurdum papa Paolo IV limitò i diritti della comunità ebraica dello Stato della Chiesa e impose l’istituzione del ghetto. Da quel momento in poi, gli ebrei a Roma avrebbero dovuto vivere in una o più strade contigue, separate dalle abitazioni dei cristiani. Questa imposizione fu accompagnata da varie clausole, quali il divieto di avere servitù cristiana, la possibilità di commercio solo di stracci e vestiti usati e l’obbligo di portare il cappello o il fazzoletto giallo per uomini e donne. Lo scopo primario del ghetto doveva essere quello di accelerare la conversione degli ebrei e la dissoluzione della loro cultura, ma ‒ come qui mostra Kenneth Stow, uno dei massimi esperti di storia degli ebrei italiani ‒ già prima del 1555 gli ebrei romani avevano sviluppato modelli di comportamento individuali e comunitari in grado di poterli sostenere anche nei periodi più duri. Dopo la creazione del ghetto riuscirono a rafforzare ulteriormente le proprie strategie di acculturazione e a sviluppare quindi una microcultura che ne salvaguardò l’identità attraverso i secoli. Grazie ad un sapiente gioco delle parti, gli ebrei romani misero in scena un «teatro sociale» in grado di farli sopravvivere, restando ebrei e romani, all’interno di un ambiente cristiano che le gerarchie ecclesiastiche avrebbero voluto dominante e oppressivo.

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Sull'autore

Kenneth Stow

Kenneth Stow è professore emerito di Storia ebraica presso l’Università di Haifa e ha diretto la rivista «Jewish History» per venticinque anni. Tra le sue numerose pubblicazioni: Alienated Minority: The Jews of Medieval Latin Europe (Harvard University Press 1993), The Jews in Rome (2 voll., Brill 1995-1996) e Jewish Dogs: An Image and Its Interpreters (Stanford University Press 2006).

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